Pagine

Cerca nel blog

sabato 8 aprile 2017

PRIMA L'AMERICA, ULTIMA LA PACE



  

di Norberto Fragiacomo


Cos’è dunque successo in Siria?

Semplice (tragicamente semplice): quel che talvolta capita nelle guerre civili. Una parte ne bombarda un’altra, servendosi in questo caso dell’aviazione: si sprigiona una nube tossica, che provoca un’ottantina di morti – una goccia di sangue in più, nel mare cremisi della mattanza siriana. Di chi è la colpa? In generale, di tutti i contendenti; nello specifico non si sa, perché potrebbe trattarsi di un’azione deliberata da parte del regime (come ripete senza requie la propaganda occidentale) oppure degli effetti “collaterali” della distruzione di un deposito di armi chimiche in mano alle forze ribelli (come affermano i russi). Visto che Assad sta oramai vincendo, la seconda ricostruzione mi appare più verosimile (1), ma non sempre la verosimiglianza procede a braccetto con la realtà dei fatti: talora gli esseri umani, imprevedibilmente, nocciono a sé stessi. Non è affatto scontato che la logica abbia la meglio sulle passioni e gli istinti. In ogni caso, c’erano (e ci sarebbero ancora) gli strumenti per appurare a chi vada addebitata la responsabilità dell’ennesimo massacro. Il punto – e qui finisce l’antefatto – è che il Presidente USA Donald Trump aveva fretta di risolvere a modo suo la questione e quindi, senza perdere tempo in indagini, ha ordinato un attacco missilistico alla Siria. Qualche struttura distrutta, fra cui la mensa di una base aerea, e poche vittime - eppure dal nulla potrebbe discendere il tutto, cioè un conflitto mondiale.

Perché Trump ha dato l’ordine? Tralasciamo l’opinione prezzolata di chi lo immagina sconvolto dall’ecatombe di donne e bimbi: solo i servi della gleba al “governo” in Europa e i propagandisti che scribacchiano su Repubblica possono (far finta di) credere a simili grossolane fandonie (2). Le chiavi di lettura sono almeno tre, alternative fra loro.

La mia ipotesi (che, oltre a essere ragionevole, coincide con quello che mi auguro) è che The Donald abbia esibito i muscoli Tomahawk a uso interno. Quotidianamente accusato di essere una creatura di Woland Putin, ha inteso provare il contrario: la pioggia di missili lava via i sospetti, annunciando che Mr. President ha il coraggio di opporsi fragorosamente alle mire russe. Si potrebbe addirittura ipotizzare, con spirito machiavellico, che l’azione – in effetti, dimostrativa - sia stata concertata fra la Casa Bianca e il Cremlino che, in fondo, era stato preavvertito: le bellicose dichiarazioni successive e lo spostamento di qualche unità navale sarebbero da derubricare a “teatro”. Stessero così le cose non sarebbe previsto alcun seguito, e noialtri potremmo dormire abbastanza tranquilli – non del tutto, però. Un rischio calcolato è pur sempre un rischio, un azzardo: chi ci assicura che qualche testa calda (più facilmente americana che russa) non colga l’opportunità per alzare la posta, e con essa il livello della tensione fra i due Paesi, le cui forze armate sono entrambe presenti in Siria? Insomma un gioco pericoloso, ma pur sempre un gioco (politico), anche se è costato la vita ad alcuni soldati siriani e una manciata di MIG in panne (prontamente sostituibili) a Bashar el Assad, che comunque sulla scacchiera è poco più che un pedone.

All’opposto dell’ipotesi di un Trump savio e calcolatore troviamo quella di “crazy Donald”, decisamente più inquietante. Più che un matto, il neopresidente sarebbe un improvvisatore, capacissimo di intendere e volere singole condotte ma non di valutarne le conseguenze a medio-lungo e persino a breve termine: in pratica, un immaturo. Avrebbe agito d’impulso, non per motivi umanitari bensì propagandistici: mentre “premeva il bottone” stava pensando ai sondaggi, allo share e – come cantava Guccini – “a culo tutto il resto!” Un Nerone o un Selim II con l’atomica fa senz’altro paura, tuttavia – a differenza dei modelli – il nostro non detiene un potere assoluto: i politici e i generali che gli stanno intorno, pur essendo apertamente guerrafondai e russofobi, riuscirebbero in qualche maniera a neutralizzarlo prima che sia troppo tardi. Il problema non sarebbe tanto l’atteggiamento verso la Russia e il resto del mondo, cui costoro guardano con risentimento e alterigia, quanto piuttosto l’assenza di metodo: lo stratega formatosi a West Point e il supermanager, egualmente privi di scrupoli morali, aborriscono l’avventurismo di chi si affida all’improvvisazione.

C’è una terza chiave di lettura, ed è – in prospettiva – la più sinistra. Senza che ce ne accorgessimo sarebbe avvenuta una mutazione: assimilato quasi subito dall’establishment che proclamava di voler avversare, Donald avrebbe cambiato parrucchino diventando un Hillary in pantaloni e cravatta. Invero, l’attacco di venerdì notte ce lo saremmo attesi dalla Clinton – un attacco alla Russia per interposto Assad. Questa non è farina del sacco del candidato Trump: è polvere bianca fornita dai suoi attuali consiglieri, a loro volta espressione del Gotha economico-finanziario a stelle e strisce. Oltre che a pressioni di altro tipo (v. Berlusconi nel 2011), il nostro può essere sensibile a un argomento: to make America First devi anzitutto annichilire le ambizioni altrui. Considerato che la serva Europa non ne ha – a parte, per l’appunto, quella di servire ginocchioni – tocca umiliare gli unici possibili contendenti, cioè la Russia (nell’immediato) e, a medio termine, la ben più insidiosa Cina. In quest’ottica una singola azione militare non basta affatto: facile che ne seguano altre a breve, per dimostrare chi comanda davvero. Questo però ci condurrebbe in un vicolo cieco, per il banalissimo motivo che Vladimir Putin e la sua cerchia semplicemente non possono cedere. Se omettessero di reagire a un’ulteriore provocazione americana, difatti, perderebbero ogni credito sia all’estero che in patria – all’estero, perché nessun Paese (l’Iran in primis) sarebbe disposto ad affidare la propria incolumità a una guardia del corpo che, non appena c’è da menar le mani, si eclissa dietro l’angolo; in patria, poiché il seguito di cui gode Putin fra le masse deriva dalla sua ostentata determinazione a restituire alla Russia il ruolo smarrito di superpotenza. Se l’uomo del FSB calasse le brache dinanzi all’arcinemico americano non ci sarebbe più un cane, fra un anno, a votare per lui: un potere ventennale si volatilizzerebbe in un istante (è scontato che non verrebbe eletto il provocatore Navalny, oggetto di universale disprezzo, ma qualcuno percepito come più “duro” di Putin).

Se alla scrivania della Casa Bianca sedesse per davvero Donhill Clintrump saremmo già in quest’istante sull’orlo dell’ultima guerra mondiale: posso immaginare che, prudente qual è, Putin contrattaccherebbe nel modo più soft possibile, ordinando di abbattere nuovi missili lanciati dalle navi USA, ma già uno spettacolare confronto aereo tra F 22 Raptor e Sukhoi su-35 segnerebbe forse il punto di non ritorno. La Russia si vedrebbe trascinata in un conflitto contro un avversario decisamente più forte per non abdicare in via definitiva al suo ruolo: dovendo prendere qualche iniziativa, si annetterebbe probabilmente l’Ucraina e cercherebbe di impartire una (non immeritata) lezione ai più bisbetici fra i suoi vicini, vale a dire la dire la Polonia e le province baltiche – per invadere l’Europa occidentale non ha in ogni caso mezzi sufficienti. La superiorità americana sul mare è schiacciante, nei cieli (anche grazie ai droni, che a quanto pare i russi stanno appena sviluppando) risulta abbastanza netta: le prospettive per la Russia non appaiono rosee. I cinesi, che ragionano in termini di secoli e non di anni, rimarrebbero a guardare: Putin potrebbe evitare la sconfitta solo rischiando il tutto per tutto con l’atomica. Un lancio dimostrativo non servirebbe a nulla, l’incenerimento di una città darebbe la stura all’apocalisse: l’unica scelta possibile sarebbe dunque bersagliare il gruppo di battaglia di una portaerei USA, distruggendola.

A quel punto gli americani potrebbero fermarsi, ma nessuno ce lo garantisce: la fine del mondo sarebbe dietro l’angolo.

Non resta che sperare che il buon Trump abbia brandito l’ascia di guerra al solo, miserabile scopo di allontanare da sé i sospetti di esser stato foraggiato dal Cremlino…


NOTE

1) Anche perché il presidente alawita, temendo un intervento americano, accettò nel 2013 la proposta russa di consegnare tutte le armi chimiche presenti nel suo arsenale affinché venissero distrutte sotto il controllo ONU.
2) Sulle veline sorosian-progressiste la versione elaborata di volta in volta da Washington e Tel Aviv non ha manco bisogno di riscontri: assurge di diritto a “fatto notorio”.


Nessun commento:

Posta un commento